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Robert Indiana al bar

                È davvero sbalorditivo constatare che siamo costantemente circondati da opere d’arte senza accorgercene; ovviamente non mi riferisco agli abitanti di Roma che possono vantare di abitare in una città che è un museo a cielo aperto, ma a tutti quegli elementi che si ispirano all’arte per creare qualcosa di nuovo e allo stesso tempo riconoscibile.

               Sono arrivata a questa conclusione in un modo al quanto curioso; un pomeriggio mi sono seduta a un bar per bere un cappuccino, azione che non ha nulla di artistico, ma mentre mi guastavo il mio orzo con latte e schiuma mi sono accorta di un dettaglio interessante. Sul lato del porta tovaglioli appoggiato sul tavolino c’era scritto “Mosé”, riferito al nome del locale, le cui quattro lettere erano circoscritte all’interno di un quadrato: la “m” a sinistra e la “o” (leggermente inclinata) a destra entrambe in alto e, in corrispondenza, sotto la prima lettera elencata, la “s” e sotto la seconda lettera elencata (questa non inclinata però) la “e”.

               Ora è chiaro il disegno che è stato realizzato, ma forse non è ancora chiaro perché ha attirato così tanto la mia attenzione. In realtà la composizione del disegno di queste lettere non è stata una invenzione dei designer a cui si sono rivolti i proprietari del locale, ma si rifà all’opera icona del movimento pop art L.O.V.E., dell'artista Robert Indiana, realizzata nel 1964; opera che in pochissimo tempo diventò virale.


               Probabilmente l’opera l’avete già presente o qualcuno di voi ha addirittura avuto il piacere di vedere la versione più conosciuta in scultura ancora oggi esposta alla Fondazione Magnani-Rocca.

               Come già detto, l’opera ebbe un successo planetario, così tanto che non solo mise in ombra tutte le precedenti creazioni di Indiana, ma oscurò l’autore stesso, riducendolo a fotografarsi davanti alle sue stesse opere per poter farsi riconoscere il merito delle sue invenzioni (senza considerare il fatto che non avendo mai registrato il marchio dell’opera non gli vennero riconosciuti i diritti d’autore).

               Oltre a questo un altro dettaglio curioso è la storia della sua creazione. Il L.O.V.E. come lo conosciamo noi, in realtà, non è l’idea originale: Indiana prese ispirazione da una sua opera precedentemente realizzata per la parrocchia che frequentava. La “scritta” di cui stiamo tanto parlando la creò sotto richiesta del museo MoMa di New York, che voleva inserirla nelle cartoline natalizie a disposizione dei clienti del Bookshop. Come si può immaginare queste cartoline andarono a ruba, mettendo in secondo piano tutti gli altri gadget che il negozio aveva da offrire; tutti volevano poter diventare proprietari di questa opera d’arte stampata su carta, tanto che 9 anni dopo, nel 1973, la U.S. Postal Service ebbe la geniale idea di produrre 330 milioni di francobolli con sopra stampata l’opera L.O.V.E., che ancora oggi vengono rivenduti dopo quasi 50 anni dalla loro creazione.

               Come potete capire le sue riproduzioni furono molteplici, ma una fu più importante di altre, dimostrando ancor di più come sia possibile prendere spunto da un’opera per crearne una nuova: il tema portante di quest’ultima, invece di manifestare apertamente il sentimento dell’amore (come nell’opera di Indiana), esponeva un grosso problema che la politica e la società di quei tempi non prese sul serio, nel quale di amore, ovviamente, non c’era proprio nulla, ma, al contrario, causò la morte di molteplici persone, tra cui molti artisti; mi riferisco all’opera IMAGE VIRUS dei General Idea, realizzata nel 1988 a San Francisco.

               Per chi non lo sapesse, i General Idea furono un collettivo artistico formato da Felix Partz, Jorge Zontal e AA Bronson, che furono attivi per quasi trent’anni (dal 1967 al 1994) nelle zone comprese tra Toronto e New York, e il loro modo di comunicare era molto particolare rispetto a quello di altri artisti: non realizzavano sculture o dipingevano su tele, ma si esprimevano con manifesti, cartelli pubblicitari, stampe o addirittura palloncini, mezzi assolutamente anti convenzionali; per questa opera usarono della carta da parati, copiando dall’opera originale di Indiana i colori e la struttura tecnica, ma cambiando le lettere, in cui all’interno dell’invisibile quadrato al posto della parola “love” misero la parola “AIDS”.


               Oggi per noi parlare di AIDS non è un tema sconvolgente, sappiamo che è una grave malattia sessualmente trasmissibile che può coinvolgere entrambi i sessi indipendentemente dalle preferenze affettive; a quei tempi, invece, veniva vista come una malattia che colpiva solo le persone gay, così che il governo statunitense decise di non “sprecare” del tempo nel cercare una cura per le povere persone che la contraevano, come se il pensiero fosse stato che l’AIDS fosse la soluzione contro il “problema” dell’omosessualità. Keith Haring è solo uno degli innumerevoli esempi di artisti morti a causa di questa malattia dopo un lungo e doloroso travaglio , oppure la fotografa Nan Goldin, ancora viva, fu anche lei molto attiva su questo tema, fotografando le tremende condizioni delle persone malate all’interno degli ospedali.

               La morale della favola è che siamo circondati dall’arte più di quanto pensiamo; un semplice disegno in realtà può nascondere un pensiero o un messaggio che in altri tempi aveva uno scopo molto profondo da comunicare.
Anche se questo è solo un esempio, intorno a noi possiamo trovarne molteplici altri che prendono ispirazione da qualcosa di già esistente per creare qualcosa di nuovo: questo non significa che abbia meno valore, proprio come i General Idea, con la loro rivisitazione di L.O.V.E., fecero per l’AIDS.

               Chissà quante opere non sono mai state realizzate a causa di questa malattia.

Fonte prima immagine: non soggetta a copyright; fonte seconda immagine: sconosciuta



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